Una larga superstrada di New York.
La macchina sfreccia
veloce, sorpassa a destra e a sinistra chi gli si para davanti. È una dannata
macchina giapponese, pensa Frank, una Toyota blu metalizzato. Sarebbe anche una
bella macchina se non fosse per tutte quelle botte che ne costellano i fianchi.
Ma d'altronde è solo questo che lui può avere, solo questo che si merita. Solo
cose sporche, cose che potrebbero essere belle e leggere ma appena lui le tocca
diventano putride, impure, pesanti.
La macchina l'ha rubata la
settimana scorsa, dopo che era successa quella cosa al lavoro. Era sceso in strada, col suo costume
ancora macchiato di sangue e con le urla della gente che lo rincorrevano e aveva
preso la prima cosa disponibile per evitare i poliziotti. Aveva fracassato il
finestrino con due colpi bene assestati, tirato fuori di peso il conducente
attraverso lo stesso finestrino rotto e si era seduto al posto di guida. Non era
stato difficile, dopo quella scena, farsene dare le chiavi. Era durante quella
fuga che la Toyota si era procurata le prime botte. Questo perché quel giorno
guidava in preda a una febbre nervosa. Adesso non è più così: quella volta si
sentiva minacciato, come se quello che aveva fatto non potesse più essere
nascosto, come se quell'omicidio non gli lasciasse nessuna via di fuga, come se
l'aver evitato i poliziotti non fosse abbastanza. Pensava ci fosse qualcuno che
lo controllava, qualcuno da cui non si poteva nascondere. Oggi è tutto diverso.
Oggi è lui a condurre le danze.
Lui si chiama Frank
Castle, ed è
di Ermanno "scrip" Ferretti
supervisione di Fabio Volino
L'hanno fatto morire molte
volte negli ultimi tempi, decisamente troppe, sia fisicamente che
psicologicamente. Troppe anche per la sua mente. Gli angeli gli hanno detto che
poteva rifarsi una vita al loro servizio e lui c'aveva creduto, gli aveva voluto
credere. Gli avevano anche dato una casa, trovato un lavoro come copertura: un
lavoro non troppo impegnativo, faceva il magazziniere al porto, e sapeva che
quel luogo era importante per carpire informazioni per la sua "missione". E
quindi aveva iniziato a lavorare, ancora con quella faccia da idiota, con quei
modi da angioletto che nemmeno nei suoi peggiori incubi aveva mai avuto. Ma era
tutto inutile. Lui non era quell'uomo, quel Denny Marshall, quell'identità che
gli avevano appiccicato addosso gli angeli. Lui era Frank Castle, perdio, un
uomo il cui nome incuteva paura in tutta la mala di New York e non solo. Lui era
il Punitore. Come potevano pensare che se ne sarebbe stato buono in disparte
davanti a tutto il marciume che vedeva ogni giorno? Come potevano pensare che
potesse dare sempre un'altra possibilità a chi non sa nemmeno cosa voglia dire
redimersi? Ma d'altronde, gli avrebbero risposto, tu ti sei redento, Castle. Ma
era vero?
La macchina continua a
sbandare, colpisce altre macchine che vanno nella sua stessa direzione. Forse
questo attirerà la polizia, forse è già stato segnalato, ma non gli importa. Sa
che niente potrà fermarlo, né un posto di blocco, né qualche elicottero. Sul
sedile di fianco al suo ha due pistole cariche e una manciata di bombe a mano.
Non gli importa più di niente ormai. L'unica cosa che sa e che la sua mente gli
ripete ossessivamente è che deve raggiungere quella villa sulla collina di Dobbs
Ferry dove è stato solo poche settimane fa. Ha dei conti in sospeso da regolare
con degli strani esseri. Li credeva angeli, ma sapeva bene di non avere nessuna
esperienza nel campo. Il soprannaturale lo lasciava volentieri a quei tipi come
Ghost Rider o a chiunque altro abbia il cervello in fiamme. Non era roba per
lui. Si era sempre accontentato, si fa per dire, della feccia per le strade,
della mala che non saprà certo come resuscitare i morti ma sa benissimo come
fartici diventare, un morto.
Sente il rumore di un
elicottero sopra la propria testa, guarda in alto e lo vede. Lo hanno
individuato, non c'è molto tempo. Se l'aspettava e non ne è per niente
impaurito. Nella sua mente tutto sembra essere ritornato chiaro, lucido. E si
ricorda com'era ridotto solo poche ore prima, vede il suo appartamento, lui lì
per terra, sporco, maleodorante, mentre si ripete sottovoce che non è stata
colpa sua, che sono stati gli angeli a non aiutarlo, che se ha sbagliato di
nuovo è perché non sa fare altro. Si vede lì per terra mentre prega, supplica di
essere di nuovo perdonato, ma questa volta rivede gli angeli e questi gli ridono
dietro, si divertono alle sue spalle. E li rivede svelare la loro vera faccia,
l'aspetto diabolico, il ghigno putrido. Prende una bomba a mano dal sedile del
passeggero, stacca la sicura e la lancia con tutta la propria forza verso l'alto
dal finestrino, mentre la sua macchina senza controllo sbanda contro un
fuoristrada. La bomba esplode appena arriva all'altezza dell'elicottero, che
ormai si era abbassato per avvicinarsi alla Toyota. L'esplosione è forte, Frank
finisce dall'altra parte della strada, nella carreggiata opposta, oltre il
muretto che divide i due sensi di marcia. Le macchine si fermano, molte
tamponano. Estrae dalla fondina una pistola e la punta contro la macchina più
vicina. Dentro c'è una donna, immobile, paralizzata. Lui entra al posto di guida
e le fa segno di spostarsi.
- Non mi spari, la prego,
non mi spari…
Lui non dice una parola,
gira la chiave, fa un'inversione a U e parte a tutto gas contromano. In quella
carreggiata non hanno messo nessun posto di blocco.
Stacco. Un negozio di armi nel Bronx. Tutto attorno fucili da caccia, pugnali e armi più o meno pesanti appese alle pareti. Sul bancone, una grande bandiera a stelle e strisce.
Un uomo entra. E’ vestito
in maniera sobria ed elegante, nella mano destra tiene una valigetta. Può essere
pericoloso girare per il Bronx con una valigetta del genere, pensa il
negoziante, ma l’uomo sembra sicuro di sè.
- Buongiorno - dice il
negoziante, ma l’altro non risponde. Si avvicina solo al bancone e vi appoggia
sopra la ventiquattr’ore, aprendola e girandola in modo che solo il negoziante
possa vederne il contenuto. Poi gli si avvicina, quasi all’orecchio, e gli
parla.
- Questi sono 50.000
dollari tondi tondi, ora datemi tutte le armi più potenti che si possono
comprare con questi soldi
- Certo - replica il
padrone del negozio, quasi abbagliato da tutti quei bigliettoni - sarà un vero
piacere, signor...?
- Lettner, Brett
Lettner.
Stacco. Di nuovo la macchina guidata dal Punitore.
- Oddio, oddio, oddio -
continua a ripetere lei sottovoce, con le mani tra i capelli. Lui non la bada, è
come se quella donna non ci fosse. È solo una precauzione averla portata con sé
e non averla ammazzata subito. Una precauzione che impedirà agli sbirri di farlo
saltare in aria. L'unica cosa che ha in mente ora è arrivare a Dobbs
Ferry.
Dopo qualche minuto la
tipa comincia a calmarsi. Sono usciti dalla superstrada, ora, e stanno
proseguendo in una piccola strada che costeggia i boschi. Nessun segno della
polizia. Probabilmente non si aspettavano tutto quel casino. O forse sono troppo
impegnati ad aiutare i supereroi contro gli alieni[1].
Non si rendono conto che gli "alieni" ce li hanno già in casa propria e tengono
i fili delle loro vite.
- Chi sei? - fa lei. Lui
non risponde. Continua imperterrito, le mani sul volante, lo sguardo fisso
davanti a sé, che svaria al massimo per guardare gli specchietti. Ha alcune
ferite sul viso, da una all'altezza della guancia sgorga del sangue. Lei si
richiude in se stessa, accoccolata sul suo sedile. Era solo un timido tentativo.
Non vale la pena di insistere.
La macchina rallenta e
infine parcheggia a cento metri dalla collinetta dove si trova la villa abitata
dagli angeli. Frank si asciuga il sangue e prepara il suo armamentario. Ha
ancora tre bombe a mano e le sue due pistole automatiche, da cui non ha sparato
ancora un colpo. Tutto sommato pensava di dover usare più munizioni per arrivare
fin lì. La donna è ferma sul suo sedile, ranicchiata, le gambe abbracciate
attorno al petto. Per la prima volta Frank la guarda. È giovane, probabilmente
25, 26 anni. Bionda, capelli lunghi, magra. Ha il volto rigato dalle lacrime, ma
dev'essere una bella donna, pensa.
- Come ti chiami? - le
fa.
-
Uh?
- Ho detto: come ti
chiami?
-
J-J-Jane.
- Jane e
poi?
- Jane
Bradley.
- Bene Jane Bradley.
Qual è il tuo
indirizzo?
- I-il
mio…?
- Indirizzo, Jane. Mi
serve saperlo.
- I-io
n-non…
Lo sguardo di Frank è
freddo, non ammette tentennamenti. La ragazza lo guarda, lì, seduto di fianco a
lei, e sente solo di averne una gran paura.
- Sulla settantaduesima.
Numero 39. Interno 7.
- Bene. Jane che abita
sulla settantaduesima, io ora devo andare. Ho delle cose da fare. Tu puoi fare
quello che vuoi, sei libera di andartene. A me serve solo la macchina per
ritornare in città, quindi mi prendo le chiavi. Ma ricordati una cosa, Jane che
abita sulla settantaduesima: so chi sei, anche senza il tuo indirizzo sarei
riuscito a trovarti, ma così è dannatamente facile. E sapendo il tuo indirizzo
so anche come trovarti, in ogni momento. I poliziotti ti chiederanno di
descrivermi. Tu devi dire di non ricordare assolutamente nulla. Hai
capito?
-
Sì.
- Non sono il tipo che
perdona tanto facilmente, non più almeno. Ci vediamo.
Scende dall'auto, ma
appena si rizza in piedi sulle sue gambe crolla a terra. Nell'esplosione una
scheggia gli ha lacerato la gamba destra e solo ora se ne accorge. In varie
parti del corpo aveva sentito delle ferite, ma questa è evidentemente più grave
di quanto pensasse. Dannazione, pensa. Rischiava di compromettere tutto. Con la
forza delle braccia e della gamba sana si trascina di nuovo sul
sedile.
- C-ch-chè è successo? -
gli fa Jane.
Non le risponde. Ormai sta
diventando un'abitudine, pensa lei.
La calma di Frank comincia
a scemare, sostituita da un affanno che la giovane Jane riesce a sentire nel suo
respiro. Lui continua a guardarsi intorno, nervoso, e poi a stringersi una
gamba, la destra, pensa. Probabilmente è ferito, probabilmente in queste
condizioni non potrà più fare quelle “cose” che doveva fare. Che ne sarà allora
di lei? Proprio ora che lui la stava lasciando libera, proprio ora che iniziava
a pensare che sarebbe sopravvissuta a quell’esperienza. Cos’avrebbe fatto lui
adesso? Se ne sarebbe andato in giro ancora, con lei come ostaggio? Si fa
coraggio e fa l’unica cosa che pensa possa salvarla. Magari sbaglierà, ma sente
di doverci provare.
- Vuoi che ti dia
un'occhiata? Sono un medico - gli dice avvicinandosi ad esaminare la
gamba.
Frank estrae velocemente
la pistola e la punta sulla fronte di Jane.
- Cos'è che sei? - le
fa.
- U-un
me-medico.
- E dove
lavori?
- In r-r-realtà mi sto
specializzando c-come d-d-dentista.
-
Dentista?
- Sì, ma la laurea in
medicina ce l'ho.
Frank mette via la
pistola, con una smorfia. I due stanno fermi in silenzio per qualche minuto.
Frank è molto pensieroso, sta cercando di elaborare un piano alternativo che non
presupponga la corsa, come invece preventivava quello precedente. Jane invece se
ne sta ferma, in attesa della prossima decisione del suo rapitore. Ora però si
sente più tranquilla. Pensa che se lui avesse voluto ucciderla l'avrebbe già
fatto pochi secondi prima. E che in fondo sa che lei non cosituisce nessun
pericolo per lui. Gli ha dato anche l'indirizzo di casa. Si fa
coraggio.
- Chi sei? - gli
chiede.
- Sono il Punitore - le
risponde alzando il maglione e mostrando sotto di esso il costume col teschio
bianco. Sembra scocciato dal non riuscire a pensare in pace, ma anche aver
voglia di parlare. Ed in effetti Jane legge bene nel suo volto. Quant’era, pensa
Frank, che non parlava con un’altra persona... Una settimana?
Due?
- Dicevano che eri
morto.
- Lo
ero.
-
Eh?
- Mi sono
suicidato.
- N-non
capisco…
- Nemmeno io, credimi,
nemmeno io. Mi hanno fatto, come dire, risuscitare.
-
Chi?
- Quelli a cui voglio far
saltare la casa.
- Capisco - in realtà no,
non capiva affatto, ma non le sembrava il caso di sottilizzare con un uomo che
si fa chiamare il Punitore e gira con tre bombe a portata di
mano.
- Mi avevano dato una
nuova identità, un appartamento in periferia, un lavoro al porto,
magazziniere.
- E poi? - fallo parlare,
Jane, si dice, fallo parlare.
- Poi un giorno ho sentito
le voci di certi traffici, di carichi di droga che arrivavano da navi
dell'Europa dell'est. Ho scoperto chi erano i capi dell'organizzazione, li ho
pedinati per giorni.
- Per
punirli?
- Io… dovevo
redimerli.
-
Redimerli?
- Sì, ma quando è stato il
momento li ho fatti fuori tutti. È successo qualche giorno fa. Ero andato al
lavoro con la mia pistola e quando ho scoperto che quello stesso pomeriggio i
capi si sarebbero imbarcati ho dovuto agire. Ho cercato di parlarci ma subito è
nata una sparatoria. È morta molta gente, molti innocenti che lavoravano lì,
manovali, operai, impiegati del porto.
- E i
capi?
- Nessuno è riuscito a
scappare.
- Perché vuoi fare saltare
in aria quella villa?
- Perché quelli che ci
sono dentro mi hanno preso in giro. Mi hanno fatto credere che potevo redimermi,
che potevo guadagnarmi il Paradiso, dove mi aspettano mia moglie e i miei figli.
Ma in realtà per loro sono solo un gioco, un diversivo. Per giorni sono rimasto
chiuso nel mio appartamento a pensarci. E oggi ho capito. Loro non mi daranno
mai il Paradiso perché non ne hanno il potere. Non sono angeli, sono diavoli. Mi
stanno preparando all'inferno. Ma se devo andare all'inferno, lo farò a modo
mio.
Il racconto del suo
carceriere faceva acqua da tutte le parti. Angeli, diavoli, suicidi e
risurrezioni. L’unica cosa a cui credeva senza nessun dubbio era che l’uomo che
aveva di fronte era realmente il Punitore. Doveva aiutarlo con quella gamba,
doveva fasciargliela in modo che lui si decidesse a fare quello che doveva e la
lasciasse andare. In quella situazione non le interessava nient’altro che
salvarsi.
- Senti - gli fece - se
vuoi ti posso dare un’occhiata a quella gamba...
- No, non serve. Ho
bisogno del tuo aiuto in un’altra maniera, Jane.
- C-come? - chiese, di
nuovo titubante.
- Tu vieni dentro a quella
casa con me.
CONTINUA SUL PROSSIMO
NUMERO!
Note:
seconda parte de "Il Paradiso può attendere". Lo so, avevo promesso un grande
flashback e invece è un po' piccolino, ma comunque chiarificatore. In compenso
ci sono sia l'azione sia una donna.
Nel
prossimo numero: lo scontro finale con gli angeli!